Era quello il passaggio più difficile della via.
Sopra, un altro punto di quarto meno mi avrebbe dato certamente meno problemi di questo strapiombetto liscio, da superare con tecnica di camino.
Davide era già ripartito ed ora osservavo dove metteva mani e piedi per poter fare poi altrettanto io. Il problema era arrivare all’albero, lì l’avrei abbracciato ed ero salvo.
Il mezzo barcaiolo scorreva lentamente, ma scorreva. Sotto di noi, sul sentiero che costeggia la parete, tutto d’un tratto apparvero i “turisti”. Speravo non si accorgessero di noi, ma con un urlo uno avvertì gli altri: “Gli alpinisti….. gli alpinisti! Ehi guardate lassù!”
“Dove?……Dove?”
Un dito inesorabilmente ci puntò. Ci avevano visti. Sentì anche Davide, che faceva finta di niente, impegnato com’era col corpo aderente alla roccia e mentre le braccia aperte tastavano qualche appiglio più grande che gli permettesse di alzarsi prima della spaccata.
Mi ero deconcentrato. La mia attenzione divisa fra le mani e i piedi sopra al mio casco, il mezzo barcaiolo fermo e le orecchie che andavano ad ascoltare la gente che vedevo se abbassavo la testa, tra le mie gambe.
Era una comitiva di gitanti della domenica, quelli che vengono su in Pietra con due macchine, morosi ed amici, arrivano fino all’eremo, possibilmente in auto, poi, una volta su, si avventurano a piedi lungo il sentiero dell’amore, i più temerari a volte tentano anche il sentiero attrezzato, così come sono, in abiti da festa.
I nostri, così giovani, dovevano certo essere di quest’ultima specie. Conciati com’erano sicuramente non erano andati oltre il primo cavo. A quel punto i “maschiacci” avevano rinunciato alla loro “impresa” in favore delle ragazze che con tutti i loro Ahi, Uhi, Ihi, non dovevano aver impiegato molto per convincerli a tornare.
“Dammi corda” disse Davide.
Tornai subito alla mia situazione e il gesto automatico delle braccia diede altri due metri di nuove possibilità al mio compagno.
Stava portandosi fuori e spaccava.
“Ohh… Ohh…” Un grido di stupore e paura veniva da quelli di sotto che s’erano fermati a guardare.
E un buontempone: “Occhio che cade!”
I miei occhi al mezzo barcaiolo su due chiodi a pressione ben saldi, il cordino passava bene, il moschettone regolarmente chiuso. Io assicurato a un altro chiodo, mi spostai verso il vuoto per controllare….. Teneva.
Il collo mi doleva a forza di guardar su perché Davide mi era proprio sopra. Lui si che andava bene! Fare la Oppio per lui era uno scherzo, ma affrontava questo strappo con la massima cautela, sempre arrampicando senza scomporsi, con eleganza estrema.
“Mi sa proprio che ostierò – pensavo – su questo passaggio”. Davide invece era sicuro. Certo lui non ha problemi con l’esperienza e l’allenamento che ha, arrampica perfino sul muro della sede del CAI e in notturna! E poi ha le “varap”. Anch’io le avevo, comprate assieme a Davide a Sassuolo, della San Marco, le avrò usate quattro o cinque volte in tutto, una spesa quasi inutile, ma chi é quell’alpinista che non possiede come minimo quattro o cinque paia di scarponi? Uno da palestra, quelli vecchi da roccia, gli altri per la neve, un altro paio da misto e naturalmente deve avere anche le Asolo Superscout, e quelli che proprio si rispettano, i Koflack, i migliori scarponi di plastica da misto che quando cammini fan “gnich gnich”.
Quelli sotto invece avevano le scarpe della festa e le scarpine bianche della biondina “fru fru” non sarebbero più state buone dopo la rovinata della Pietra.
Ridevano e scherzavano sforzati, non sembrava si divertissero, ma la davano ad intendere l’un l’altro.
“Ades al casca!” gridava uno, e gli altri giù una clamorosa risata.
“Non so come fanno ad andar su di lì”
“Ma non lo vedi?” l’altro che la sapeva lunga – “che hanno una corda?”
Certo sarebbe bello – pensavo – avere una corda nello zaino e un flauto! Appoggiare lo zaino alle pareti più erte e cominciare a suonare, suonare, suonare una musica sempre più suadente, e la corda timidamente fa capolino dal coperchio , si guarda smarrita un po’ intorno, poi affascinata dalla melodia comincia a salire ondeggiando per 40 metri e ad essa l’alpinista si attacca per salire, magari alla marinara!!!
“Cretini!!”
“Ma son proprio matti” e chiacchieravano dell’ultima disgrazia in montagna che avevano sentito dire, non penso neanche letto sul giornale perché dicevano asinate ancor più grosse di quelle che in proposito scrivono sui quotidiani.
“Si é sfracellato cadendo da un crepaccio”
“Ma perché lo fanno… ma se cadono?”
E un altro: “Ma guarda che non son mica molto alti…. Se cadessero quelli lì si ferirebbero solamente!”
Lui si che se ne intendeva!
Pensai di colpo a Villeneuve e a quanti avevano speculato sulla sua morte. La morte in diretta, come nell’omonimo film della bella Romy, perfino al rallenty, affinché gli spettatori, su comode poltrone, potessero gustarsi nei dettagli più minuti la tragedia della morte.
Quanti in quel momento avevano portato rispetto per l’uomo che muore? E’ strana questa voglia pelosa della gente di cibarsi delle disgrazie altrui, di straziare, senza pudore, le ferite aperte e ancora sanguinanti.
Sui circuiti di automobilismo – é una statistica – nei tratti dove si sono verificati incidenti mortali affluiscono la volta dopo sempre un maggior numero di spettatori, e la morte di un pilota non fa che richiamare più tifosi alla corsa successiva.
Noi alpinisti poveri, fortunatamente non lo facciamo per soldi, siamo una stretta cerchia di gente che ci capiamo al volo, senza discorsi inutili, ma la gente fuori non ci capisce…..
“Corda” gridava Davide che era già all’albero.
Si aggrappò con le due braccia al tronco e con un guizzo felino era già sopra. Il passaggio era risolto.
Ora la corda girava più veloce nel moschettone e vidi le suole del mio compagno scomparire sulla parete che oltre lo strapiombo si adagiava un po’.
“Sasso” gridò di colpo.
“Sasso” gridai acquattandomi contro la parete.
Per poco non li becca in pieno quei quattro là sotto. La paura aveva creato lo scompiglio. Ci fu silenzio e per un po’ stettero ala larga, ma poi ritornarono assieme ad una coppia richiamata da quel chiassoso gruppetto.
Lui era un “ciccionazzo” della mia età, con la radiolina a tutto volume ci rendeva edotti, con altruismo peraltro non richiesto, sulla svolgimento delle partite di calcio. Lei aveva raccolto dei fiori che sarebbero finiti immancabilmente nella pattumiera, una volta a casa, due ore dopo.
Tutti a naso in su come a osservare il cielo stellato.
“Almeno se ne andassero – pensavo – mi danno ai nervi”.
Era proprio bello il tempo quella domenica! Agganciato su quel terrazzino vedevo la vallata tappezzata di quadrati variopinti. Cercavo di capire qual’era “la balena” (sasso così denominato per la sua forma). L’esasperato rumore di un cross saliva fra i campi, ma non riuscivo a scorgere la moto.
Ci eravamo alzati presto quella domenica per poter essere alle 9 ad arrampicare. Quelli invece avevano l’aria di aver pranzato ed aver preso la macchina nel pomeriggio per fare la loro “passeggiatina”.
Noi era la terza via della giornata.
Ero anche un po’ stanco, A questa via era tanto che ci pensavo. Volevo arrivare a farla; era una meta di difficoltà da raggiungere, ed ora mi era stata data l’occasione di salirla, se pur da secondo.
A star fermo dentro quella scomoda fessura all’ombra mi era venuto fretto e speravo che Davide arrivasse presto al punto di sosta e mi facesse ripartire. Io non lo vedevo, ma quelli di sotto certamente si, lo si capiva dai commenti che era un’altra volta su un pezzo esposto, perché non era la difficoltà, ma il pericolo che interessava loro.
Mi venne in mente mia madre quando parecchi anni prima l’avevo convinta ad accompagnarmi in Pietra. Dovevamo fare la Mussini-Iotti, stavolta io da primo e la cosa mi entusiasmava. Al piazzale le dissi: “La vedi quella grossa fessura laggiù a destra, a fianco di quelle placche gialle sopra la quercia? E’ di lì che usciamo”.
Guardò con distrazione, la cosa non l’interessava più di tanto e questo mi stupì. Ascoltai le sue mille raccomandazioni dicendole che entro due o tre ore saremmo stati di ritorno.
Tornammo contenti. Mia madre conversava con Polo, il gestore del ristorante che nei giorni feriali poteva permettersi questo lusso.
“Ci hai visto?” le chiesi.
“No – rispose – ma c’erano dei matti lassù, me li ha fatti vedere il signore, sembrava che penzolassero nel vuoto, uno é stato fermo un bel po’ su quelle rocce. Ma se cadono?”
La zona indicata era la nostra e salendo non avevamo visto altre cordate, ma non valeva la pena spiegare.
In macchina, tornando, ci disse che aveva a lungo parlato con Polo di quelli che arrampicano sulle rocce e che Polo avrebbe detto molto sinceramente: “Ma non sono mica normali, sa signora, quelli lì”
“Sono tutti un po’ strani”. (Ahi traditore prezzolato che ci vendi i panini per duemila lire e siamo noi alpinisti i tuoi migliori avventori!)
E mia madre: “ hai visto, te lo dicevo io, la pensano tutti come mé”
Stavo sorridendo quando Davide urlò: “ Quanti metri?”
“Dieci” – risposi.
La corda scorse più veloce.
Saranno state le sei quando Davide mi recuperò per l’ultimo tiro.
I “turisti se n’erano andati già da un pezzo.
Paolo Cervigni
Pubblicato nel settembre 1985 sulla rivista Lo Scarpone e Le Alpi Venete,